Crossing over fa parte di un filone di pellicole che non hanno un protagonista ben definito, ma sono, per così dire, “corali”, ciascun personaggio ha una caratteristica precisa ma non una psicologia profonda. La sceneggiatura di questi lavori è una sorta di partitura a tema, servono a denunciare un problema o una disfunzionalità nei rapporti umani. Le relazioni tra personaggi sono per molti versi speculari, tra le vicende dei protagonisti vi sono motivi ricorrenti oppure delle somiglianze. Il tema di Crossing over è il passaggio da una frontiera ad un’altra, l’immigrazione clandestina e il respingimento alle frontiere, l’accettamento delle regole del paese ospitante e il rapporto con la cultura d’origine. Molti dei personaggi presentati non a caso ruotano intorno all’ICE (U.S. Immigration and Customs Enforcement), l’agenzia governativa statunitense per il controllo delle frontiere e dell’immigrazione clandestina, formata all’indomani dell’undici settembre. I punti di vista sono molteplici: dall’ufficiale dal cuore tenero (Harrison Ford) alla messicana che passa il confine centinaia di volte, dall’australiana ricattata da un ufficiale senza scrupoli fino all’ebreo che riscopre la sua identità perché ha bisogno di lavorare. I personaggi si incontrano a due a due, a volte si sfiorano brevemente senza toccarsi, e presentano una schematicità dei rapporti davvero elementare. Così l’ufficiale dell’immigrazione corrotto è sposato con l’avvocatessa paladina dei diritti civili degli immigrati, l’ufficiale dell’Ice con la famiglia in fase di naturalizzazione scopre di avere qualcosa in comune con un componente di una gang coreana e una ragazza del Bangladesh scopre sulla propria pelle che nel paese della libertà di parola è meglio non dire certe cose sui jihadisti dell’undici settembre. Ovviamente in conclusione, in un rapidissimo montaggio, ogni vicenda trova la propria conclusione, di volta in volta drammatica, tragica, semplicemente triste o colma di speranza. Il rapporto dello Stato è peraltro ambivalente: a volte sembra inutilmente crudele, a volte duro ma giusto, a volte pietoso e umano. Del resto, si sa, sono gli uomini a fare la differenza. Max Brogan (Harrison Ford) è un agente dell’ICE e ha il compito di ostacolare con tutti i mezzi legali l’immigrazione clandestina negli Stati Uniti. Opera nell’area del confine con il Messico ed è incapace di trattare le persone come fossero puri e semplici pacchi da accettare o rinviare al mittente. Incontra così la giovane operaia messicana Mireya Sanchez che, prima di essere arrestata dai suoi colleghi, lo supplica di aiutare il suo bambino. Nel frattempo Denise Frankel si occupa di difendere come avvocato i più deboli mentre suo marito Cole, approfittando del potere che ha sulla consegna o meno della Green Card, costringe una ragazza australiana a concedergli prestazioni sessuali. Conosciamo anche le storie di Zahta, giovane musulmana che vuole che si pensi anche alle possibili ragioni degli attentatori dell’11 settembre, l’adolescente coreano Yong Kim che si fa coinvolgere in una banda di giovani criminali, del musicista Gavin Kossef e della ragazza del Bangladesh Taslima. La complessità delle vicende di cui sopra potrebbe spingere più d’uno a desistere dalla visione ma il rischio è stato abilmente superato dal regista Wayne Kramer. Questi decide quindi di interpolare le storie consentendo al contempo allo spettatore di entrare nel film senza troppe difficoltà. Grazie a lui entriamo in alcune delle vicende e ci accorgiamo che comunque la sceneggiatura conserva una sua complessità di lettura delle dinamiche interculturali. Per il resto rimane un film in grado di arrivare a un vasto pubblico con un messaggio su cui riflettere.

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